Data: 30/04/2008 - Anno: 14 - Numero: 1 - Pagina: 30 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Caterina Guarna (Altri articoli dell'autore)
(Un contributo, quello che segue, che è un’emblematica testimonianza di quanto saldo e tenace sia talvolta l’attaccamento alle proprie radici. Ed anche un esempio della solidità e della saggezza dei nostri padri, degni abitatori di questa nobile terra di Calabria.)
MIO PADRE
Voglio scrivere di mio padre, a trent’anni dalla sua morte, prima che la memoria di quanti sono della sua generazione e lo hanno conosciuto si affievolisca. Si chiamava Francesco, Ciccio per gli amici del paese, Franco per la moglie e la famiglia. Nacque nel 1915, l’anno della tragedia della prima guerra mondiale, che trascinò suo padre Giuseppe nel suo vortice, come tanti altri, restituendolo poi, per sua fortuna o per intercessione della Madonna del Carmelo, come lui amava dire, ai suoi cari. Era il secondo maschio di una famiglia numerosa, composta di un altro fratello, morto poi nella seconda guerra nel 1943, e di sei sorelle. Le condizioni economiche della famiglia, il padre essendo bottaio, dei “Varihr1ari” e contadino al tempo stesso, con una piccola proprietà nella località di Fangemi, non gli permisero di studiare oltre la quinta elementare, poichè dovette aiutare subito il padre in bottega e anche, come spesso egli ricordava, nella costruzione della casa, in piazza Santa Barbara; eppure era, a detta del maestro Cosenza, grande educatore di generazioni di badolatesi, di intelligenza vivissima e con una spiccata predisposizione agli studi. Nei suoi ricordi più cari che mi restano, le lettere che scrisse a mia madre negli anni in cui dovette stare lontano dalla famiglia, si notano una grafia chiara e una correttezza ortografica e sintattica che oggi farebbero invidia a molti dei nostri neolaureati. Nella piccola bottega, allora situata nel vicolo Santa Barbara, preparava, insieme al fratello, le doghe, che poi il padre usava per fare botti e barili. L’orizzonte del paese e quel lavoro erano per lui però troppo limitati, così, sull’esempio dello zio, Rosario De Rosi, tentò con successo di entrare nella Polizia Stradale e la sua prima destinazione fu Reggio Calabria, dove condusse con sè per farle studiare due delle sorelle. Lo scoppio della guerra, nel 1940, interruppe però i suoi progetti: fu inviato al fronte greco-albanese, e dei due anni trascorsi là raccontava episodi che a noi sembravano romanzeschi, ma che testimoniavano anche di rapporti amichevoli con la popolazione locale. Fu rimpatriato nel ’42 in quanto, in seguito alla morte del fratello, anch’egli chiamato alle armi, era rimasto l’unico figlio maschio a sostegno dei genitori già anziani. Sposò mia madre nel 1943, ancora in piena guerra, e dopo un breve congedo per mettere su casa a Catanzaro, dove mia madre lavorava in Prefettura, fu subito rimandato in servizio, come milite della polizia stradale. Anche dopo la nascita dei primi due figli rimase lontano da casa per altri due anni, poichè a Roma seguiva il corso per entrare nella Polizia di Stato. Le lettere che quasi quotidianamente scriveva testimoniano la sua sollecitudine e il suo affetto per la famiglia e non dimenticava mai di ricordare i genitori e le sorelle rimaste al paese, tranne l’ultima, Angelina, che egli aveva voluto che si trasferisse in città, per prendere il diploma di maestra. Tornato a casa, trovò finalmente lavoro stabile nella Questura di Catanzaro, dove fu promosso via via fino all’ultimo grado che il suo livello di studi gli permetteva, quello di maresciallo. Nei miei ricordi di bambina e poi di adolescente, lo rivedo prodigarsi sempre per quei paesani che approdavano in città, soprattutto negli anni amari del dopoguerra e poi del post-alluvione, per procurarsi il passaporto necessario all’espatrio, al duro cammino dell’emigrazione. E spesso tornava al paese per la vendemmia e le feste tradizionali, a confortare i genitori, a salutare gli amici, e non si sottraeva ai numerosi incontri con i compaesani che avevano qualcosa da chiedergli, sempre prodigo di consigli e sempre disponibile. Anche dopo che per seguire noi figli approdati in Toscana si era fatto trasferire a Firenze, il suo pensiero era sempre là, al paese natio, dove tornava appena possibile, per stare vicino alla madre e alle sorelle. Ed era alla vigilia di uno dei suoi tanti viaggi che all’improvviso la morte lo colse, a soli 63 anni. Tornando in paese, spesso mi è capitato di incontrare persone, a me sconosciute, che lo ricordavano con riconoscenza ed affetto per qualche piccolo favore ricevuto, per il suo sorriso sempre gioviale, per la sua rettitudine. Il suo attaccamento alle radici si è trasmesso ai figli, soprattutto a me, e mi ha spinto a tornare regolarmente a Badolato, e a prendervi casa: penso che sia il modo migliore per onorarne la memoria. |